Dottorato
di ricerca in Architettura. Teoria e Progetto
XXXII
Ciclo, I Semestre
Prof.
Antonino Saggio
Roberta
Gironi
Categoria:
Città
Intorno
alla condizione di abitare: la fragile linea dell’esistenza
“Sempre più
viviamo in società urbane senza città”
Manuel Castells
Le nuove condizioni fisiche e sociali
dei territori urbani evidenziano un mutato senso di quello che viene comunemente
definito come città. La realtà globale è, infatti, percorsa da forze di trasformazione
sia in senso materico, che hanno come diretta conseguenza un’incessante espansione
degli agglomerati urbani, sia da una trasformazione di tipo concettuale e
sociale che riguarda la percezione stessa di città da parte degli abitanti. All’immaginario
collettivo di polis, si sta sostituendo un sistema più complesso, composto da tasselli
di un mosaico urbano in cui le realtà non sempre dialogano ma sovente si
configurano come isole a sé stanti. Tale conformazione si manifesta in
contrasti stridenti, con punti di discontinuità in cui risulta evidente il
divario economico e sociale che intercorre tra diversi gruppi in differenti
contesti urbani. Queste differenze si traducono in veri e propri dispositivi
spaziali di separazione, secondo una geografia frammentata il cui terreno può
essere mappato in base all’appartenenza ad un contesto sociale.
In sostanza, confini fisici delimitano
zone di appartenenza di gruppi diversi all’interno dello stesso ambito urbano.
La
condizione delineata rivela in alcuni contesti una dimensione di fragilità spaziale
che merita di essere indagata e compresa nei suoi caratteri insediativi.
A tal
proposito, sono state selezionate due tesi di dottorato del Dipartimento di
Architettura, teorie e progetto e si propone qui una duplice chiave di lettura,
secondo un filo conduttore ritenuto comune in entrambe le tesi individuate, seppur
declinato in modi distinti: da un lato si propone una lettura secondo il
concetto di limite, in quanto esclusione
e inclusione, e dall’altro quello del rapporto tra individuo e territorio.
Il primo
termine rimanda a ciò che Edward Soja definì come capitale spaziale, ovvero strumento
e condizione spaziale di accesso ad un inserimento nella vita sociale e che
genera una conseguente esclusione di ciò che è altro. Questo è il caso delle
gated-community che, secondo Bernardo Secchi, sono “il luogo di specifiche
forme di governance create ad hoc e accettate in un patto di mutua solidarietà
tra gli abitanti”. Tale lettura sarà utilizzata per la prima tesi presa in esame.
Lo stesso concetto
di limite indica però anche un continuo tendere tra la dimensione del costruito
e la dimensione dello spazio vuoto, tra ciò che per esistere deve delimitare la
sua diversità e creare le sue regole, configurandosi come uno spazio definito e
circoscritto, e ciò che è invece indefinito. Questa sarà la lettura della successiva
tesi, ovvero sul deserto.
La seconda
chiave interpretativa proposta, sul rapporto individuo-territorio, rimanda invece
alla continua modificazione del suolo quale espressione dell’esistenza della
condizione umana e quindi dell’abitare.
La tesi in Composizione Architettonica
e Urbana dal titolo “Meg(a)polis / Lagos” di Leila Bochicchio partendo da un’analisi
delle mutate condizioni delle città, evidenzia e delinea nello specifico la
struttura della megapoli di Lagos.
Momento di riconoscimento di cambio è
la svolta urbana registrata nel 2007 che ha evidenziato una popolazione globale
per la maggioranza urbana. Il gigantismo che caratterizza questo fenomeno
dilagante di inurbamento, ha fornito una nuova catalogazione dimensionale di
città in relazione al carico assoluto di abitanti. Vengono così definite 5
categorie di città : mega-città, grandi città, città medie, città e aree urbane
minori, passando da una scala d’ordine di meno di 500.000 abitanti a oltre 10
milioni.
Il termine metropoli si diffonde a
partire dalla prima metà del XXsec per definire agglomerati urbani con una
popolazione maggiore di un milione di abitanti; questi centri urbani venivano
identificati collettivamente quali centri con un’immagine ben definita e
individuabile, frutto di un processo di progettazione dall’alto che ne definiva
le perimetrazioni e le distinzioni tra ciò che era dentro e ciò che ne era
escluso.
Nel 1961 il geografo Jean Gottmann usa
per primo il termine di megalopoli per descrivere la l’area urbanizzata sulla
costa orientale da Boston a Washington; tale fenomeno appariva non come
sommatoria di centri urbani connessi ma come un unicum, riconoscendo un certo
grado di invasività legata al pattern generico e privo di gerarchie urbane, delle
reti di trasporto ed edifici senza qualità.
La tesi utilizza nel titolo il termine
“Meg(a)polis” per indicare, da un lato l’aspetto dimensionale e quindi un
evidente stato di urbanizzazione, dall’altro la particella alfa indica l’assenza
di polis, cioè di quanto in genere è inteso come città tradizionale e quindi ne
esclude i valori propri di città stessa.
All’interno delle megalopoli episodi
di povertà urbana sono passati da fenomeni delimitati e sporadici a
manifestazioni evidenti (nei paesi in via di sviluppo si stima che il 78% della
popolazione risieda in questi contesti). Il fenomeno definito dei mega-slum
emerge a partire dagli anni ’60 quando in Africa, il boom economico legato
sullo sfruttamento delle risorse, anziché basarsi sulla produzione, ha generato un aumento dei costi dei beni di consumo, dei
terreni e degli alloggi urbani.
Nella diade centro-periferia e sviluppo
orizzontale-verticale, si nasconde lo stato sociale dell’abitare (i quartieri
abitati dall’elite sono generalmente caratterizzati da tipologie unifamiliari,
bassa densità e presenza di spazi verdi, mentre gli slum invece hanno sviluppo
orizzontale. L’elevazione nei paesi in via di sviluppo, infatti, è una questione
da ricchi).
Nel senso di appartenenza ad una
comunità risiede uno dei valori fondativi del vivere urbano. Gli spazi della
città contemporanea evidenziano un tipo di identità individuale più che un’identificazione
del singolo quale membro di una comunità. Il senso di comunità come luogo di incontro
tra diversi, si appiattisce a circolo di uguali, o di simili. I luoghi della
città contemporanea si frammentano in aree di partecipazione e identità
omologhe, evidenziando delle comunità come sistemi chiusi, delimitati da
confini unanimemente riconosciuti.
L’analisi su Lagos parte dall’individuazione
di tre elementi materici, che sono interpretati in senso oggettivo e simbolico:
sabbia e acqua come categorie geografiche intrinseche e asfalto come layer di
antropizzazione giustapposto. Acqua e asfalto sono il filone guida per la
lettura delle infrastrutture, l’uno naturale e l’altro artificiale.
La sabbia, intesa come passaggio e
territorio, corrisponde alla porzione di pieno in antitesi a quella di vuoto
costituita dall’acqua. Tutta la città poggia sulla sabbia, che ne costituisce elemento
fondante e strutturante (alcune leggi urbanistiche proibivano l’edificazione in
elevazione degli edifici a causa della fragilità del supporto del terreno).
La città si è sviluppata secondo un
processo di urbanesimo amorfo, indipendentemente dagli sforzi di pianificazione.
La maggior parte degli interventi di espansione pubblici intrapresi miravano ad accogliere solo un certo tipo di
abitanti. Nasce in epoca coloniale una dualità che permane ancora oggi a Lagos:
già dall’inizio del ‘900, infatti, furono identificate delle aree ad uso esclusivo
degli europei (Ikoyi) e aree commerciali in cui potessero fare affari con gli
africani (Lagos Island) e così anche la costituzione dei quartieri di Ebute
Metta e Yaba che furono pensati secondo il modello delle new town inglesi.
Il meccanismo di esclusione di alcuni strati
di popolazione ha innescato meccanismi di sopravvivenza che ha visto
urbanizzare aree di scarto. La necessità di insediarsi è avvenuta mediante un
continuo rapporto di modifica e interrelazione tra individui e territorio. L’acqua,
elemento preponderante nella città, ha costituito quello che nella successiva
tesi sarà il deserto: un elemento sul quale incidere la propria esistenza.
Infatti, la precarietà dell’abitare si rivela in tutta la sua forza attraverso
un labile equilibrio con i ritmi lacustri, soggetti a inondazioni: palafitte
instabili conquistano lo spazio acquatico della laguna, unico spazio esente
dalle mire economiche e speculative. La fragilità della condizione insediativa
rivela tutta la sua forza nel desiderio di esistere.
La successiva tesi, intitolata “Intorno
al Sahara. Topografie resistenti tra architettura, deserto e città” di Filippo
De Dominicis, prende in esame il rapporto che si instaura tra il deserto e lo
spazio costruito proprio del fenomeno urbano. Viene indagata l’esistenza di un
fenomeno urbano anche in contesti in cui le condizioni geografiche sono
avverse, quali quelle del deserto. Delineare il fenomeno urbano significa rintracciare
la scrittura del luogo, sospesa in un rapporto ambiguo tra insediamento e
territorio, esito di sovrapposizioni continue.
Il deserto nella tesi è letto come uno
spazio indeterminato e astratto in quanto atemporale.
Il lavoro è strutturato in quattro
parti: la prima introduce la condizione fisica e mentale indotta dal deserto
come principio fondativo del fenomeno; la seconda e terza approfondiscono due
casi studio (Djennè e l’oasi di Figuig) parti vitali di un fenomeno urbano e l’ultima
parte, sul ruolo del progetto come trasformazione rivalutativa dell’esistente. Per
descrivere la storia e lo sviluppo delle città si deve partire dal rapporto tra
insediamento e territorio su cui insiste.
Alla base
dell’atto insediativo vi è una necessità estrema di modificazione e la totale
astrazione spazio-temporale, in cui il deserto costituisce il supporto
fondativo e vuoto eccezionale. Ogni tentativo di avvicinarsi ad esso comporta
un passaggio oltre un limite ben definito; il limite morfologico dell’Atlante
delimita, infatti, una fascia oltre la quale le condizioni geografiche aride
non garantiscono la possibilità di auto sostentamento. Questo limite
caratterizza e divide il Dar-Al-Islam in due mondi: da una parte la badiya,
territorio non civilizzato e attraversato da nomadi allevatori, dall’altro la
hira, la civiltà del sedentario borghese.
L’uomo
realizza il proprio universo, inteso come centro, chiuso e limitato, in
opposizione alla non intelligibilità del deserto, inteso come limite e
orizzonte. Tutto ciò identifica una condizione spirituale a cui fa riscontro una
fisica: il deserto come ostacolo alla civilizzazione in quanto non coltivabile.
Il deserto è quindi lo spazio del percorso e dell’attraversamento, misurato
attraverso l’infrastruttura carovaniera. Solo attraverso la modificazione del
suolo e del rapporto con il territorio, l’abitante può garantirsi la
sopravvivenza. Il recinto ne perimetra aree che sfuggono alle regole del
deserto; esso è spazio mentale, che vive nella contemplazione del contrasto, e spazio
fisico, che si confronta con il territorio, modificandolo e incidendolo.
Dietro ogni
fenomeno urbano sussiste un atto di tipo fondativo: un gruppo umano che si
insedia decide di riferirsi a un capo e decide dove insediarsi, privilegiando
zone difendibili. Dopo aver costruito l’edificio di culto, il gruppo perimetra
un’area in cui si svilupperà e crescerà, per successive aggregazioni, l’insieme
urbano. Gli abitanti dispongono di una serie di regole per difendersi dal
deserto: la moschea in sommità, il recinto come limite fisico e mentale ed un
tessuto urbano che si struttura secondo un sistema di pratiche. Si instaurano
quindi delle relazioni-tipo indotte dalla condizione di isolamento che il
deserto comporta.
In
conclusione, una città esiste quando include nel suo interno e fa proprie
regole che la distinguano dal deserto, regole che stabiliscano una relazione
esclusiva con esso, nella misura in cui il deserto resta l’elemento fondativo
della vita urbana.
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